mercoledì 7 novembre 2012

Io sto con Antonio Ingroia

Il periodo politico che stiamo attraversando é caratterizzato dalla costante ingovernabilità della nostra Regione, da un Governo nazionale che ha aumentato la pressione fiscale al 55% ed impoverito solamente il ceto medio, non considerando, in maniera scientifica, la possibilità che a pagare fosse chi veramente, in questo Paese, ha affamato, strozzato ed impoverito gli Italiani. Le banche. E così un cartello politico ibrido e scomposto, continua a dire agli Italiani che stiamo per uscire dalla crisi, che é necessario ancora uno sforzo, che hanno bisogno di quell'ultimo, poco, sangue che scorre ancora nelle nostre vene. Nessun beneficio abolito  ai parlamentari di Camera e Senato, nessun decreto anticorruzione, nessuna nuova legge elettorale saluterà il Paese prima della naturale conclusione della legislatura parlamentare.
Ad un Popolo che non si ribella, il nostro, perché non ne ha la forza ed il coraggio, corrisponde un panorama politico scomposto, nervoso, quasi virtuale che appare impegnato, ancora una volta, per la salvaguardia dei propri privilegi, piuttosto che per il bene della Nazione. 
Così il trio ABC, oggi forte della debolezza altrui, avrà tutto il tempo di pensare ad un Monti Bis, ter o quater, con la benedizione del GOI e della Chiesa cattolica. Si, avete capito bene. Ciò che sta avvenendo in Italia, storicamente non era mai accaduto. Fin dalla storia preunitaria non eravamo mai stati "governati" con il tacito accordo dei due fronti contrapposti. Il pudore, almeno quello, c'era sempre stato. Finora.
Adesso no. In Italia non esiste più neppure il pudore. E' stato messo da parte, quasi archiviato, per la sopravvivenza dei soliti noti; per continuare a mantenere un seggio in Parlamento. Con la connivenza di chi, questo Paese, avrebbe dovuto difenderlo, aiutarlo e guidarlo.
E' il tempo del dossieraggio, degli attacchi personali contro chi non é favorevole a questo sistema. E' il tempo di demolire chi si oppone a questa realtà. Nessuno sforzo é eccessivo, se serve a salvaguardare i privilegi, l'indennità parlamentare o tutti quegli affari, dei soliti noti che, ogni giorno, si consumano sulla pelle degli onesti italiani che pagano le tasse. 
In questo quadro politico chi disturba il conducente deve subito, e senza esitazione alcuna, scendere dall'autobus Italia. Nella peggiore ipotesi dev'essere fatto scendere. E subito.
Così ogni scusa é buona. Qualche trasmissione, un traferimento in Guatemala oppure qualunque altra cosa per non arrivare alla verità.
E' il caso di Antonio Ingroia che, in questa disgraziata e martoriata Terra di Sicilia, indefessamente, e con enorme coraggio, sta provando a dare il suo contributo facendo solo il proprio lavoro di inquirente.
Quella che pubblico sotto é la memoria a sostegno del rinvio a giudizio sulla trattativa Stato-Mafia. La risultante di un certosino lavoro del Giudice palermitano che é stato destinato in Guatemala.
Non aggiungo altro, se non che GLI ITALIANI VOGLIONO SAPERE! 
Giovanni Di Lorenzo



Proc. Nr. 11719/12 R.G.N.R.DDA


PROCURA DELLA REPUBBLICA
presso il Tribunale di Palermo

Al Signor Giudice della Udienza
Preliminare
Dott. Piergiorgio MOROSINI

Oggetto: Memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio

Il presente procedimento, giunto ora all'udienza preliminare,
costituisce la summa di una lunga, complessa e laboriosa indagine, che
comprende la lettura sintetica ed organica di una gran mole di atti


processuali di fonte eterogenea (dichiarazioni di collaboratori di giustizia e
testimoni, documenti, intercettazioni, telefoniche ed ambientali, sentenze di
varie AA.GG.), tutti inerenti la vicenda della c.d. “scellerata trattativa”,
sviluppatasi a cavallo delle stragi del '92-'93 fra i massimi esponenti di Cosa
Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato.

Quest'Ufficio non esita ad evidenziare l'importanza della ricostruzione
probatoria contenuta in questo procedimento, che rappresenta l'esito di un
faticoso ed ambizioso sforzo investigativo, frutto dell'impegno di tanti
magistrati che si sono avvicendati negli anni, in ruoli e con funzioni diverse,
e del quotidiano impegno di pochi e valorosi investigatori di varie Forze di
Polizia, soprattutto della D.I.A., che ha così onorato, lavorando in condizioni
davvero difficili, l'investimento che su questo organismo investigativo
fecero uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Straordinari risultati investigativi sono stati acquisiti anche grazie alla
passione per la verità e la giustizia ed al rigore etico-morale e professionale
di magistrati di altre Procure – fra tutti Gabriele Chelazzi – che tanto si sono
impegnati per accertare la verità sulla stagione delle stragi e della trattativa,
nonostante i tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale.

Proprio per questo articolato impegno investigativo, frutto di anni di
indagini, l'approccio di questo Ufficio con il materiale probatorio non è stato
certamente pressapochista, né superficiale (come spesso si è inopinatamente
affermato, senza rispetto delle energie generosamente profuse da tanti
uomini dello Stato), bensì estremamente rigoroso nella valutazione delle
prove, come dimostrano anche le ripetute archiviazioni richieste – nel corso
degli anni – allorquando, a differenza di oggi, gli elementi di prova erano
apparsi inadeguati a sostenere proficuamente l’accusa in giudizio.

Invero, si tratta del primo procedimento penale incentrato sulla c.d.


"trattativa Stato-mafia", che ha fatto emergere ipotesi di reato a carico di
importanti uomini politici e di alcuni dei vertici nazionali dei più qualificati
apparati investigativi del Paese. Né può trascurarsi che, nella storia delle
indagini antimafia degli ultimi anni, questa è di certo una delle più "sentite",
perché ha costituito il momento più alto del contributo che la Procura di
Palermo ha offerto alla ricerca della verità sulla stagione in cui hanno perso
la vita due uomini-simbolo come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,
indimenticati maestri e componenti, in anni diversi, di questa Procura della
Repubblica.

Secondo la ricostruzione emersa dalle risultanze finora acquisite, la
trattativa, dal lato di Cosa Nostra, venne originariamente gestita direttamente
dall'odierno imputato Salvatore RIINA, all'epoca capo assoluto del sodalizio
mafioso, mentre, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali
dei Carabinieri ovvero il Comandante del ROS Gen. Antonio SUBRANNI,
il suo Vice Col. Mario MORI e il Cap. Giuseppe DE DONNO, a loro volta
investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero MANNINO,
all'epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco),
che contattarono Vito CIANCIMINO – a sua volta in rapporti con Salvatore
RIINA per il tramite di Antonino CINA’ – nel 1992, nel pieno dispiegarsi
della strategia stragista.
In quello stesso periodo, il medesimo col. MORI venne in contatto –
attraverso l'intermediazione del M.llo Roberto TEMPESTA e di Paolo
BELLINI – con i capi di Cosa Nostra lungo il parallelo asse costituito da
Antonino GIOE’ e Giovanni BRUSCA.


E' stata l’analisi complessiva di tali atti che ha determinato la
doverosa instaurazione del procedimento in oggetto, anche sulla base delle
risultanze dei processi davanti alle Corti d’Assise di Caltanissetta e Firenze
relativi alle stragi del ’92 e del ’93, di cui sono state acquisite le relative
sentenze. Rilevano, a titolo emblematico, le affermazioni contenute nella
motivazione della sentenza depositata il 2 marzo 2012 con la quale la Corte
d’Assise di Firenze ha condannato Francesco TAGLIAVIA per concorso
nelle stragi del ’93, ove in premessa si legge che "una trattativa
indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do
ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli
uomini di mafia".

Va altresì evidenziato che l'odierno procedimento è frutto dello
stralcio dal procedimento penale n. 2566/98 RGNR (c.d. procedimento
Sistemi Criminali): era già allora centrale la vicenda delle interlocuzioni
instauratesi fra l'ex Sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO e gli ufficiali
del ROS. Anche dalle dichiarazioni rese dagli stessi interlocutori (Vito
Ciancimino, da una parte, il Col. MORI e il Cap. DE DONNO, dall’altra) si
evinceva che le “ambasciate” che RIINA faceva pervenire allo Stato si
risolvevano nella minaccia di proseguire nella strategia stragista qualora non
fossero state accolte alcune richieste di benefici in favore di “Cosa Nostra”.

Come è noto, è proprio in tale contesto che si inserisce la vicenda del

c.d. “papello” delle richieste che, secondo dichiarazioni di più collaboratori,
Cosa Nostra fece recapitare ai suoi “interlocutori” istituzionali per ottenere,
in tal modo, i benefici in cambio dei quali avrebbe posto fine alla strategia
omicidiaria avviata nel 1992 (circostanze queste di cui collaboratori di
giustizia del calibro di Giovanni BRUSCA e Salvatore CANCEMI – già

appartenuti alla Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra –
hanno dichiarato di avere avuto notizia personalmente da Salvatore RIINA).

Ed è, pertanto, proprio in tale ambito di verifica e approfondimento
che è stato attenzionato anche il diverso aspetto concernente la c.d. “altra
trattativa” del 1992, apparentemente autonoma e distinta dalla prima, ma che
con essa si intreccia ed in parte si sovrappone per scansione temporale,
oggetto, finalità e soggetti coinvolti (così come prospettato – in particolare –
nelle dichiarazioni di Giovanni BRUSCA): e cioè, la vicenda del diverso
canale di dialogo avviato lungo l‘asse GIOÈ –BELLINI –TEMPESTA –
MORI, nell’ambito del quale Cosa Nostra offrì la restituzione di
pregiatissime opere d'arte rubate, richiedendo come contropartita la
concessione degli arresti domiciliari ad alcuni esponenti di vertice
dell’organizzazione, tra i quali Bernardo BRUSCA e Pippo CALO'.

Gli sviluppi investigativi e l'acquisizione di ulteriori elementi hanno
consentito di ampliare la visione delle vicende inerenti la trattativa e di
coglierne meglio genesi, matrice, obiettivi ed esiti. Un ruolo prodromico di
nuove certezze derivava innanzitutto dalle dichiarazioni di un testimone
privilegiato dei fatti, l'odierno imputato Massimo CIANCIMINO, fonte di
prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo
assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d'altra
parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed
in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose: queste hanno infatti
consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei contatti intercorsi fra
i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle Istituzioni, attraverso il canale
dell‘ex Sindaco di Palermo, Vito CIANCIMINO, padre del dichiarante.

E di particolare valore e significato sono state, di certo, le successive e
conseguenti rivelazioni di "testimoni eccellenti", alti esponenti delle


Istituzioni del tempo, i quali, solo allorquando sono venuti a conoscenza
delle dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO (in parte divenute pubbliche),
sono stati finalmente indotti a riferire, per la prima volta, circostanze che
avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite nel mosaico probatorio,
evidenziavano in modo più chiaro uomini, protagonisti e complici della
trattativa.

Nel contempo, da ulteriori risultanze, e tra queste in particolare dalle
dichiarazioni di alcuni collaboratori di elevata affidabilità ed attendibilità
come Antonino GIUFFRÈ (peraltro successivamente corroborato da
numerosi altri collaboranti di stretta osservanza “provenzaniana“, fra i quali
Ciro VARA, Stefano LO VERSO, per non parlare di quanto sul punto già
risultava dalle confidenze del capomafia nisseno Luigi ILARDO al Col.
RICCIO e al ROS dei Carabinieri), si evidenziava che la trattativa non si era
affatto conclusa entro il limitato arco temporale del 1992, essendosi invero
proiettata anche nel corso del 1993: è questo un anno decisivo per Cosa
Nostra, che incontrò sempre maggiori difficoltà operative anche a causa
dell'applicazione del duro regime carcerario del 41-bis, che proprio per
questo, secondo le dichiarazioni di numerosissimi collaboratori, costituiva
una delle norme di cui Cosa Nostra chiedeva l'eliminazione o l'attenuazione,
unitamente ad altre, in materia di collaboratori di giustizia, sequestri di beni,
e limitazione dei poteri del Pubblico Ministero.

Peraltro, anche in riferimento a questa stagione, nuovi testimoni
riferivano ignote circostanze, che attribuivano anche agli odierni imputati,
che consentivano così di delineare, ancora una volta, una “doppia visione“
convergente, proveniente da punti di vista diversi: i collaboranti, dall’angolo
visuale di Cosa Nostra e, dall'altro lato, gli uomini dello Stato. Anche se - va
detto per inciso - questo Ufficio è consapevole del fatto che non si è del tutto


rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei
responsabili politico-istituzionali dell'epoca (un'amnesia durata vent'anni),
che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del
biennio terribile '92-'93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di
natura documentale) che confermavano l'esistenza di una trattativa ed il
connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e
deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l'ordine pubblico
e per la nostra democrazia.

Il complesso probatorio, seppur non esaustivo, appare sufficiente per
ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e
coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha
mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra, allungandosi fino al
1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire
benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese.

In questo quadro, può dirsi che è proprio dal suo epilogo del 1994, che
viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco di tutta la “trattativa“.
Essa non è stata limitata a singoli obiettivi “tattici“, come la tregua per
risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da
eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai
più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza
Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e
traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza
che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall'altro
lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in
quegli anni aveva investito l'Italia.

E' proprio questo il senso più profondo della strategia violenta che
ebbe inizio con l'omicidio LIMA. Fu certamente la risposta di Cosa nostra


allo Stato che, dopo la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, aveva
messo in crisi la credenza d'impunità dei boss, condizione essenziale per la
sopravvivenza dell’organizzazione criminale mafiosa stessa. Ciò nonostante,
è indubbio che il programma omicidiario-stragista nacque dalla necessità per
i boss di ristrutturare radicalmente ed in modo irreversibile e violento il
rapporto con la politica. Uno scontro che ha portato il Paese a un
capovolgimento politico e istituzionale.

Va, in proposito, rammentato che la sentenza della Cassazione
costituisce soltanto l’epilogo di un rapporto che si era già usurato a
cominciare dalla seconda metà degli anni ’80. Invero, in quel periodo e
fino agli anni ’90, Cosa Nostra attraversò una fase estremamente
delicata e di transizione, speculare rispetto alla fase, altrettanto
delicata e di transizione, attraversata dal nostro Paese, ove si
verificavano importanti mutamenti politici e istituzionali, specie
dopo la caduta del Muro di Berlino ed il conseguente e rapido
crollo del c.d. “comunismo reale” alla fine degli anni ’80. Cosa
Nostra – come è noto – non è soltanto un’organizzazione
criminale, ma anche e soprattutto un vero e proprio sistema di
potere criminale, che fonda la sua forza anche sull’interlocuzione
con gli altri poteri, in particolare con quello politico e con quello
economico, dai quali trae legittimazione e concreti benefici.
Sicché, è normale che, nei momenti di tensione e crisi all’interno
degli altri sistemi di potere, con i quali la mafia interagisce, si
determinino delle immediate ripercussioni nell’universo
criminale. E’ quel che accadde nella seconda metà degli anni ’80,
ove a tale macro-fenomeno politico-economico, si aggiunsero le
più specifiche e contingenti difficoltà dei capi di Cosa Nostra,


che subirono proprio in quel periodo le conseguenze più negative
del maxiprocesso, non solo sul piano meramente repressivo, ma
anche su quello della propria “autorevolezza”:
1) l’arresto di numerosissimi uomini d’onore, capi, gregari e
semplici “soldati” determinò un concreto depauperamento delle
capacità operative dell’associazione mafiosa;
2) le prime collaborazioni con la giustizia di uomini d’onore
come Tommaso BUSCETTA, Salvatore CONTORNO (e poi
Antonino CALDERONE e Francesco MARINO MANNOIA),
causarono una profonda ferita, mai più rimarginata, alla legge
dell’omertà interna;
3) il rinvio a giudizio prima, e la condanna in primo grado poi di
tantissimi mafiosi, alla fine di un processo caricato di grande
significato politico-simbolico, misero in crisi il mito
dell’impunità dei mafiosi.

E’ anche e proprio da qui che iniziò una nuova presa di
coscienza all’interno dei vertici dell’organizzazione mafiosa. E’
proprio dagli effetti nefasti (per l’associazione mafiosa) del
maxiprocesso che prese avvio la crisi dei rapporti di Cosa Nostra
con i referenti politici tradizionali, che agli occhi dei capimafia
avevano fallito su uno dei terreni più importanti per i quali la
mafia a loro si rivolgeva: la garanzia dell’impunità.

Ecco allora che Cosa Nostra mutò atteggiamento ed
elaborò una nuova politica di “alleanze”, tendente a rinnovarle e
a verificare la praticabilità di altri “canali”, di altri “terminali”,
verso i quali eventualmente indirizzare la propria capacità di
orientare i consensi elettorali.


Naturalmente il rapporto fra il potere mafioso e gli altri
poteri non è un rapporto “piano”, fondato sul dialogo e su
accademici scambi di opinione. Tutt’altro: esso è fondato,
invece, sulla logica dei rapporti di forza e spesso sul linguaggio
della violenza, vera o sublimata. Proprio perciò è soltanto con
l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa Nostra
concepiscono il loro relazionarsi con la politica, soltanto con
l’uso della violenza pensano di poter realizzare un qualsiasi
progetto di “rinnovo” dei propri rapporti con quel mondo.

Di tale logica fu sintomo il tentativo - prima attuato e poi
rientrato - da parte di Cosa Nostra di mutare alleanza politica,
allorquando, in occasione delle elezioni del 1987, dirottò i propri
appoggi dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano.

Durante lo svolgersi di questo travagliato percorso di
transizione, si arrivò così alle soglie del nuovo decennio,
quando, all’inizio degli anni ’90, la situazione politica nazionale
ed internazionale si fece ancora più complessa.

Il crollo del muro di Berlino e il disfacimento dell’impero
sovietico ridisegnarono gli equilibri politici internazionali
sull’intero scacchiere mondiale. La fine della contrapposizione
bipolare Est-Ovest, fondata sull’equilibrio nucleare e su una
guerra fredda combattuta su più fronti, fu la “grande madre” di
una catena di eventi.

La grande criminalità aveva approfittato della copertura
politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema
politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto
dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del


crimine mondiale. Ebbene, fu proprio il crollo del muro di
Berlino a determinare la fine della giustificazione storica della
“collaborazione” con la grande criminalità.

Nel frattempo, nel panorama nazionale, l’eccesso di
tassazione, portato dell’utilizzazione distorta della spesa
pubblica, aveva determinato la rivolta della borghesia
commerciale e della piccola imprenditoria di varie regioni del
Nord, espressa nella vertiginosa crescita politica del fenomeno
delle Leghe. Anche al Sud l’emergere di un fenomeno politico
spontaneo e nuovo come quello della “Rete” si rivelò quale
ulteriore sintomo della crisi dei partiti tradizionali.

Fu il combinarsi di tutte queste circostanze a far sì che dal
cuore del sistema politico nazionale vennero precise indicazioni
per “voltare le spalle” alla grande criminalità. E non è forse un
caso che proprio in quel periodo – pur in assenza di una vera e
propria emergenza d’ordine pubblico (del genere di quella che si
era realizzata agli inizi degli anni ’80 e come ancor più si
realizzò durante la stagione stragista del “biennio terribile” del
’92-’93) - la politica criminale registrò taluni significativi segni
di mutamenti in senso repressivo.

Nessuno poteva ormai fermare il corso degli eventi. Si era
chiusa in modo irreversibile una fase storica ed il vecchio
sistema era ormai alle corde. Il che poi esplose fragorosamente
nei primi anni ’90, anche per effetto di talune importanti
inchieste giudiziarie che travolsero i vertici di alcuni dei più
importanti partiti politici.


E’ in questo quadro complessivo, è in questo contesto
generale che va inserita la strategia di alleanze che Cosa Nostra
organizzò in quella nebulosa e complessa fase storica di
transizione e concepì il piano destabilizzante del quadro politico
tradizionale iniziato con l’omicidio LIMA, poi sfociato nella
logica della “trattativa“ per costruire un nuovo “patto politico-
mafioso di convivenza fra Stato e mafia“.

Due frasi assumono importante valore simbolico.

Una è quella di Totò RIINA, che spiega ai suoi soldati: «Dobbiamo
fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». Un modo rozzo di esprimere
la ragione dello stragismo mafioso all'ombra dello spirito della trattativa.

L’altra è del boss Leoluca BAGARELLA: «In futuro non dobbiamo
più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle». L'obiettivo
strategico è costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica,
perché – come diceva sempre BAGARELLA – fosse Cosa Nostra ad
esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza
alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire
l'ingresso della mafia in politica, tout court.

Le stragi costuirono la premessa necessaria della ristrutturazione dello
scambio dialettico con la politica. BAGARELLA all’inizio pensava di
rifondare il rapporto con la politica tramite il progetto separatista di «Sicilia
libera», un movimento di diretta espressione della mafia, per conquistare un
più immediato controllo della politica. Ma il progetto originario risultò
troppo elementare e fallì. Il completamento e lo sperato esito della “trattativa
politica“ attraverso la stipula del “patto politico-mafioso“ si dispiegò
attraverso vari tentativi in successione, nell’arco temporale che va dal 1992
fino al 1994. Nel piano criminale di quella stagione non ci fu una


progressione rigidamente predeterminata, almeno da parte di Cosa Nostra,
che dimostrò al contrario la capacità di adattarsi agli eventi, secondo la sua
migliore tradizione.

Nel 1992, la posta in gioco era soprattutto la vita dei politici inseriti
nella lista nera di Cosa Nostra che andavano salvati, e perciò la trattativa
ebbe per oggetto la rinuncia agli omicidi già programmati in cambio
dell‘allentamento della morsa repressiva. Nel 1993, la trattativa sembrò
inizialmente non produrre gli esiti sperati e si resero necessarie ulteriori
minacce che, questa volta, produssero qualche frutto: l'allentamento del 41
bis. Il “cedimento“, consistito nell’inopinata mancata proroga di oltre 300
decreti di applicazione del 41 bis, costituì il segnale che si volesse andare
incontro ai desiderata di Cosa Nostra, lanciando quel “segnale di
distensione“, peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del
DAP CAPRIOTTI indirizzava al Ministro della Giustizia CONSO in data
26/6/1993.

Ma non bastò. Non poteva bastare. La presenza di un governo tecnico
determinò la necessità di continuare dietro le quinte una trattativa più
squisitamente politica, finalizzata cioè a trovare un nuovo referente politico,
azione poi sfociata nell'accordo politico-mafioso, stipulato nel 1994, non
prima di avere rinnovato la minaccia al governo Berlusconi appena
insediatosi.

*****

Venendo alla sostanza giuridica delle contestazioni, occorre
rammentare che il presente procedimento non ha per oggetto in senso stretto
la trattativa. Nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne
sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato.


Oltre ai mafiosi (RIINA, PROVENZANO, il medico Antonino
CINA', BRUSCA e BAGARELLA), almeno sette uomini dello Stato sono,
invece, ritenuti responsabili di precise e specifiche condotte di reato
realizzate nell’ambito della trattativa. Tre sono gli uomini degli apparati che
hanno fatto da anelli di collegamento fra mafia e Stato: MORI, DE DONNO
e il loro superiore dell’epoca SUBRANNI. Due sono gli uomini politici –
cerniera, cinghie di trasmissione della minaccia: MANNINO prima e
DELL'UTRI dopo. Poi c’e’ Massimo CIANCIMINO, imputato di concorso
esterno in associazione mafiosa per il suo ruolo permanente di tramite fra il
padre Vito e Bernardo PROVENZANO. Due sono, infine, gli uomini di
Governo, CONSO e MANCINO, sui quali si è acquisita prova di una grave e
consapevole reticenza. MANCINO è imputato per falsa testimonianza;
CONSO, con l’allora Direttore del DAP Adalberto CAPRIOTTI e l’on.
Giuseppe GARGANI sono tuttora “soltanto“ indagati per false dichiarazioni
al PM, esclusivamente in ossequio alla previsione di legge che impone il
congelamento della loro posizione in attesa della definizione del
procedimento principale.

La condotta è stata contestata a ciascuno degli imputati in funzione
della rispettiva posizione nell’ambito della trattativa. I boss mafiosi RIINA,
PROVENZANO, BRUSCA, BAGARELLA e il ‘’postino’’ del papello
Antonino CINA’, sono gli autori immediati del delitto principale, in quanto
hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un
Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse
ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto LIMA.
Omicidio che fu la prima esecuzione della minaccia rivolta verso il Governo
tutto ed in particolare indirizzata verso il Presidente del Consiglio in carica


Giulio ANDREOTTI. L‘avvio di una campagna del terrore contro il ceto
politico dirigente dell'epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che
furono poco dopo specificati nel papello di richieste che RIINA fece
pervenire ai vertici governativi.

La predisposizione ed inoltro del papello ai destinatari della minaccia
costituì, pertanto, un ulteriore momento esecutivo della condotta tipica,
dispiegatasi ancora negli anni successivi attraverso i gravissimi messaggi
minacciosi che si succedettero nel 1993 e all’inizio del 1994, anno in cui, al
Governo presieduto dall’on. BERLUSCONI, BRUSCA e BAGARELLA
fecero recapitare, attraverso il canale MANGANO-DELL'UTRI, l'ultimo
messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-
mafioso. Si completò, in tal modo, il lungo iter di una travagliata trattativa
che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo
DELL'UTRI-BERLUSCONI (come emerge dalle convergenti dichiarazioni
di SPATUZZA, BRUSCA e GIUFFRE‘).

Quanto alle condotte degli uomini dello Stato imputati di concorso
nella minaccia al Governo (SUBRANNI, MORI, DE DONNO, MANNINO
e DELL’UTRI), sono tutti accusati di aver fornito un consapevole
contribuito alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di
sostegno alle condotte tipiche che si sono risolte nell'avere svolto il ruolo di
consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi
fossero gli intermediari di un’estorsione. Con l'aggravante, nel caso di
specie, che il soggetto “estorto“ è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è
costituito dal condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri, così sviati
dalla loro finalità istituzionale e dal bene pubblico.


Per completezza, si segnala, infine, il ruolo di concorrenti nel
medesimo reato assunto da altri uomini delle istituzioni oggi deceduti. Ci si
riferisce all'allora Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed al vice direttore
del DAP Francesco DI MAGGIO, che, agendo entrambi in stretto rapporto
operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi SCALFARO,
contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis.

Diventa così più agevole la comprensione dei reati contestati, della
tipologia della condotta ascritta a ciascun imputato e delle ragioni del
radicamento della competenza davanti all'Autorità Giudiziaria di Palermo.

Invero, premesso che si procede per un classico reato di minaccia, la
condotta tipica va ravvisata in ogni minaccia grave contro un corpo politico-
amministrativo come il Governo, esercitata dai vertici dell'organizzazione
mafiosa. In particolare, la minaccia, come descritta nel capo di imputazione,
è consistita nell'aver prospettato agli "uomini-cerniera", perché ne dessero
comunicazione a rappresentanti del Governo, l'organizzazione e l'esecuzione
di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle
Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia
natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra.

Va, ovviamente, sempre tenuto conto che, ai fini della consumazione
del reato, è del tutto irrilevante che i benefici richiesti siano stati
effettivamente ottenuti, essendo del tutto indifferente per un mero reato di
pericolo, come nel caso di specie, che la vittima sia stata concretamente
intimidita e quindi costretta a compiere gli atti richiesti, con conseguente
turbamento dell'attività di Governo.

Invero, la condotta incriminata ha trovato il suo principio di
esecuzione nell'omicidio dell'on. Salvo LIMA che ne ha costituito la prima


realizzazione minacciosa, indirizzata ai destinatari finali del messaggio a
contenuto intimidatorio: il Sen. Giulio ANDREOTTI e il Sen. Calogero
MANNINO, entrambi all’epoca componenti del Governo.

Il primo, quale Presidente del Consiglio in carica, e riferimento
nazionale dell'on. LIMA, fu certamente il più immediato destinatario della
minaccia nella duplice veste di Capo del Governo e di esponente politico che
Cosa Nostra riteneva responsabile della mancata realizzazione delle sue
aspettative in merito all’aggiustamento del maxiprocesso.

Il secondo, l'odierno imputato Calogero MANNINO, nella doppia
qualità di componente del Governo, quale Ministro per gli Interventi
Straordinari nel Mezzogiorno, e soprattutto di principale esponente siciliano
della corrente politica DC facente capo a livello nazionale all’allora
segretario nazionale del partito. Ciò rileva ancor di più ove si pensi che
MANNINO era stato individuato dai vertici di Cosa Nostra come successiva
ed ormai designata vittima del progetto omicidiario in danno dei politici che
non avevano mantenuto i patti.

Il MANNINO, secondo la ricostruzione dei fatti desumibili dalle
risultanze acquisite, si attivava per sollecitare i propri terminali sul territorio
a richiedere a Cosa Nostra la contropartita utile ad interrompere la strategia
di frontale attacco alle Istituzioni politiche, così di fatto proponendosi come
intermediario per conto dell’organizzazione mafiosa nella ricerca di nuovi
equilibri nei rapporti con la politica.

La condotta degli altri concorrenti nel reato di cui all'art.338 c.p. è di
ausilio nell'aver agevolato Cosa Nostra a portare a destinazione il messaggio
intimidatorio. In particolare, questo è il ruolo oggetto di contestazione ai tre
Ufficiali del ROS (SUBRANNI, MORI, DE DONNO), che, attivati nel 1992
da MANNINO e da altri esponenti del livello politico della trattativa non


tutti ancora compiutamente individuati, aprivano un canale di interlocuzione
con i vertici di Cosa Nostra e finivano per determinare, o comunque
rafforzare, negli stessi il convincimento dell’utilità della minaccia,
prestandosi poi a recapitare il contenuto dei messaggi intimidatori al
Governo, destinatario ultimo della minaccia e titolare del potere per
concedere i benefici di varia natura richiesti dai mafiosi.

In questo contesto, si inserisce la contestazione di falsa testimonianza
a carico dell'odierno imputato Nicola MANCINO. E‘ sicuramente emerso
che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro
dell'Interno in carica Vincenzo SCOTTI era ritenuto un potenziale ostacolo,
mentre MANCINO veniva ritenuto più utile in quanto considerato più
facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della
trattativa come il coimputato MANNINO, e da chi lo circondava, a
cominciare dal Capo della Polizia PARISI. E rispetto al ruolo di
quest'ultimo, va evidenziato il dato, non trascurabile, che mentre i primi
approcci della trattativa erano nati su iniziativa ed ispirazione di chi poteva
avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto, nel
frattempo il quadro si era aggravato perché all'omicidio LIMA aveva fatto
seguito la strage di Capaci. E quindi l’affare non riguardava più solo la sorte
dei politici, ma l’intero Stato. E' il momento, in cui irrompe sulla scena una
male intesa ( e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente
legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori
livelli istituzionali.

Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio MARTELLI, percepito
anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per essere politicamente
eliminato (anche per effetto di un'inusuale collaborazione giudiziaria del
capo della P2 Licio GELLI) più in là nel ’93, quando si tratta di


ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di scena
anche il capo del Dap Nicolò AMATO, ritenuto inizialmente un possibile
strumento utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo,
ma poi diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su
bianco (in una sua nota del 6 marzo 1993 indirizzata al neo-Ministro
CONSO) che PARISI aveva espresso «riserve» sull’eccessiva durezza del
41 bis, a margine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza
pubblica del 12 febbraio 1993.

D'altra parte, occorre considerare che la condotta di alcuni
protagonisti istituzionali della trattativa del 1992 (MORI e MANNINO, in
particolare), non rimase circoscritta entro quei confini temporali in relazione
al triangolo di rapporti CIANCIMINO-CINA'-RIINA, ma si protrasse
certamente fino al 1993, allorquando, chiusa la Prima Repubblica con la
caduta del Governo Amato, e quindi nella successiva fase di debolezza del
quadro politico che favorì la formazione di un "Governo tecnico" come il
Governo CIAMPI (che fu anche un "Governo del Presidente" e cioè del
Presidente della Repubblica, Oscar Luigi SCALFARO), si affievolì il potere
dei politici “garanti“ del primo accordo stipulato a margine della prima
trattativa in costanza della Prima Repubblica. Tale ruolo venne più
proficuamente assunto e mantenuto, in quel particolare momento, dagli
uomini degli “apparati“ sopravvissuti alla Prima Repubblica. In particolare,
il Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed il Gen. Mario MORI in questo
contesto assunsero un ruolo di particolare protagonismo: gli uomini-cerniera
divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire
l'adempimento degli accordi presi, e quindi garanti della controprestazione


in termini di allentamento della stretta repressiva, specialmente sul fronte
carcerario in materia di 41 bis.

E' in quel momento che si delinea in tutta la sua importanza il ruolo di
Francesco DI MAGGIO, uomo fidato dei Servizi di Sicurezza e da sempre
legato al ROS dei Carabinieri ed uomo forte della Amministrazione
Penitenziaria, che darà il suo indirizzo imponendolo a CAPRIOTTI, il nuovo
Direttore del DAP, ed al Ministro CONSO. Ciò con l'avallo che gli derivava
anche dai suoi rapporti con il capo dello Stato, Oscar Luigi SCALFARO ( a
sua volta influenzato da PARISI). Capo dello Stato che, come emerso da
varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli
avvicendamenti SCOTTI-MANCINO e MARTELLI-CONSO, e nella
sostituzione di Nicolò AMATO col duo CAPRIOTTI-DI MAGGIO,
attraverso i quali seguì l'evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente
connesse all'offensiva stragista del 1993.

Ma certamente l'allentamento sul fronte carcerario, con alcune
significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss
mafiosi di assoluto rango, non poteva esaurire l'iter della trattativa che, dalla
parte dei capi di Cosa Nostra, aveva ben più ambiziosi e duraturi obiettivi,
mirando ad ottenere garanzie a tutto campo, con la stipula di un nuovo
duraturo patto politico-mafioso. Ed è per questa ragione che le minacce di
prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e proseguirono fin
tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe
politica dirigente con la quale “trattare“, all'ultima minaccia portata al neo-
Governo Berlusconi tramite il canale BAGARELLA-BRUSCAMANGANO-
DELL'UTRI, seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di
coesistenza Stato-mafia.

*****


Così compendiato l'iter complessivo della “trattativa“ e la

ricostruzione delle risultanze probatorie in ordine alla dinamica delle

condotte oggetto della contestazione, alla loro concatenazione finalistica e al

loro dipanarsi nel tempo, diviene più agevole dissipare ogni eventuale

dubbio residuo in ordine alla competenza radicata davanti all'Autorità

Giudiziaria di Palermo.
Ciò per un triplice ordine di considerazioni, anche fra loro alternative:
a) in primo luogo, la condotta di violenza e minaccia ha inizio
certamente a Palermo con la commissione dell'omicidio LIMA che
rappresenta, per le ragioni sopra esposte, il primo atto con il quale
si dà esecuzione alla minaccia, nei confronti del Governo
ANDREOTTI allora in carica, di prosecuzione della progettata
serie di delitti di uomini politici di spicco della Prima Repubblica;
b) in secondo luogo, vi è, altresì, connessione fra l'omicidio LIMA e i
singoli atti di minaccia indirizzati al Governo, in relazione
all'identità di disegno criminoso originario, unica determinazione
di sottoporre a minaccia il Governo in carica anche attraverso la
commissione di alcuni specifici omicidi di uomini politici (così
come riferito da alcuni collaboranti, ed in particolare da Giovanni
BRUSCA);
c) in terzo luogo, anche a voler prescindere dei primi due motivi di
competenza territoriale, gli indizi finora acquisiti fanno ritenere
che il primo atto di minaccia nei confronti del Governo
ANDREOTTI sia stato recapitato a Palermo nei confronti
dell'allora Ministro Calogero MANNINO.


Quanto sinteticamente esposto, e con riserva di ulteriore illustrazione
nel corso della discussione innanzi alla S.V., sostanzia le ragioni per le quali
si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni
imputati, nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella
verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare.
Nella consapevolezza che è doveroso adesso sottoporre tali risultanze al
vaglio della S.V., giudice nel contraddittorio delle parti.

Palermo , il 5 novembre 2012

IL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA AGG.
Antonio Ingroia

I SOSTITUTI PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
Lia Sava Antonino Di Matteo Francesco Del Bene Roberto Tartaglia


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